vorrei che tu venissi da me
(foto di francesco baldi)
Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno
e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade
buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse
insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi
timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i
medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra
svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita
misteriosa, che ci aspettava.
Ivi palpitarono in noi per la prima volta
pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro,
stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai
fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza
nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto
gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta
del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano
lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da
piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi
rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me
ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color
grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per
le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse
domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi,
e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si
vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli
orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole
del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo
leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si
accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie
sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi
taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza
parola.
Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e
care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa
parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo
delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci
le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si
possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel
giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e
nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria,
continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti
dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci
sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del
telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e
chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi
sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le
bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo
felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime
divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso -
tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti
preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta,
impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non
importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un
istante felici. Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te
sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di
novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della
vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla
fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età
beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una
specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri,
migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo
senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per
invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà,
per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu - lo
capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei
colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le
vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti
accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti
sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie
di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le
statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io
sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu
migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e
sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti.
Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la
gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un
paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto
- gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò
retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure
io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di
fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non
ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così
amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta
semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte
del mondo. Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e
centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita
che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente
sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti
dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio
nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre.
Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati, Gli inviti superflui.
8 commenti:
bella!
buona gironata
ciao
Però permettimi una picola osservazione: se quella Lei tanto amata apprendesse tutti quei rimproveri, tornerebbe dal suo innamorato Lui?
quanta maliconia! Ti aspetto.
Struggente. E stasera, per me, un po' straziante :)
"Inviti superflui" è assolutamente tra i dieci migliori racconti di tutti i tempi.
Condividerne la lettura è sempre una emozione che si rinnova.
Grazie
Mi hai fatto venire in mente la bellissima Vorrei di Guccini
Anche a me viene alla mente solo un aggettivo: struggente!
Parole veramente intense e significative, che sarebbe importante riuscire a mutuare almeno in parte per dare senso a molti diffusi, inespressi sentimenti.
Posta un commento