Il cuore delle parole
mi ero annotata queste parole tanto tempo fa:
Quando prendiamo in mano il libro di un poeta antico, noi facciamo
anzitutto scoperta della lontananza. Quelle parole mitiche che ci
parlano anche da una qualunque edizione economica o scolastica e non
sembrano di primo acchito dire niente di straordinario e rischiano di
confondersi subito tra i discorsi del nostro mondo audiovisuale, quelle
parole hanno viaggiato per secoli prima di arrivare a noi e hanno
affrontato ogni sorta di aggressione. Molte sono sparite strada
facendo. La maggior parte. Molte sono state ferite e menomate e non
hanno più l’aspetto originario. Ma l’importante è che siano arrivate
fino a noi. Noi, aprendo una qualunque edizione moderna di Virgilio o
di Orazio, non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a
un sopravvissuto. E, leggendo Virgilio o Orazio, compiamo il gesto più
civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo
straniero, cioè gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad
ascoltarlo. Lo dimentichiamo con troppa facilità: un verso, anche un
solo verso di Omero è un miracolo della fortuna. Se ci viene incontro,
abbiamo il dovere di riceverlo. Negargli l’ascolto sarebbe favoreggiare
quella violenza irrazionale ma spesso intenzionale che ha disperso i
quattro quinti della letteratura antica e che, in un modo o nell’altro,
continua ad agire tra noi e nullificherà anche molte delle nostre cose
migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico,
faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso. I beni che
provengono dal dare ospitalità sono meravigliosi. Non solo lo straniero
è soccorso e salvato e, dunque, molto probabilmente ci resterà amico,
ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella
nostra stessa casa, entriamo in contatto con un mondo che non
conoscevamo. E la scoperta di una realtà diversa, oltre a produrre
piacere di per sé, ci rende forti. Chi conosce - diceva Lucrezio - non
ha paura. Gli antichi ci insegnano ad ascoltare, perché per prima cosa
ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che hanno attraversato ci
obbliga a fare silenzio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e
rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di
ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare
al già noto, a ricevere l’irriconoscibile. Ormai è raro che riusciamo a
godere delle cose nuove, perché per noi non c’è più novità. Anche ciò
che la nostra civiltà tecnologica propone come nuovo contiene pur
sempre qualcosa di abituale. Questa stessa civiltà tecnologica e
consumistica, anzi, ci addestra ad accogliere il «nuovo» con una certa
familiarità, pretende che lo riceviamo come dovuto e necessario. Noi
abbiamo bisogno di novità ma alla fine, attraverso i prodotti della
cultura contemporanea, perfino attraverso certa buona letteratura, non è
novità quel che ci viene dato, ma un modo sempre variato di soddisfare
la nostra sempre uguale esigenza di intrattenimento. Il nuovo,
insomma, nel nostro mondo è scontato fin dall’ora del suo primo
apparire. La parola dei poeti antichi, nella sua totale diversità, non è
necessaria: noi non la aspettavamo. Ci è completamente donata. Non
soddisfa un bisogno che c’era. È la risposta a quesiti che non avevamo
formulato, come la soluzione a un enigma di cui non si sapeva
l’esistenza. Allora, mentre leggiamo Orazio, Virgilio, Saffo, ogni
sapere preconcetto smette di funzionare, perché non serve più a niente.
Siamo completamente disponibili alla voce che viene dal passato. La
nostra mente ricomincia a pensare, a immaginare e si impegna a capire.
L’inattualità o l’assurdità che può suggerire una prima lettura
distratta si dissolve e ogni vocabolo (ogni suono - se il lettore ha la
fortuna di conoscere un po’le lingue antiche) acquista un’importanza
primigenia. La scrittura, per gli antichi, è esercizio etico; impegno a
vivere bene. Non c’è riga di Saffo o di Orazio che non proponga un
programma di educazione sentimentale ed emotiva. Attraverso la poesia
l’individuo impara a definire i suoi sentimenti e a comprenderli in
rapporto ai loro oggetti. La poesia circoscrive lo spazio della
soggettività, che questa si esprima in un comportamento o in una
reazione psicologica. Dalla poesia sono fissati o almeno riconosciuti i
limiti dell’umano e sono indicate le conseguenze degli eccessi. Ogni
cosa al suo posto e al suo tempo: la felicità si raggiunge se si tiene a
mente questa semplice verità. Ma gli antichi sanno bene che gli
individui sono continuamente tentati da immagini di sé che non possono
adattarsi alla realtà. Il culto della misura, tra gli antichi, non è
separabile dal fascino della follia e dell’autodistruzione e proprio
per questo va considerato un’altissima conquista. La poesia antica è lo
specchio di una cultura che crede nel potere delle parole. Gli antichi
conoscono perfino la parola che vince la morte e ha il governo della
natura. Mi sto riferendo al ben noto mito di Orfeo, il poeta che
commuoveva le stesse pietre con la bellezza del suo canto e che in
virtù del suo dono godette del raro privilegio di riportare la moglie
prematuramente morta sulla terra. D’altra parte, il mito di Orfeo ci
insegna che la potenza della parola non è onnipotenza. La parola vince
se rispetta le regole del mondo in cui si manifesta. Orfeo aveva
stretto un patto con il dio dei morti - di non voltarsi mai, prima di
riuscire alla luce, per accertarsi che la moglie lo seguisse. Invece si
girò ed Euridice fu persa una seconda e definitiva volta. La parola,
insomma, ha un ambito di azione, che può essere anche vastissimo, può
anche scendere agli inferi e lì esercitare la sua forza. Ma alle parole
devono anche corrispondere azioni adeguate. Per di più, perduta
Euridice per sempre, Orfeo continuerà a infrangere le regole. Se ne
andrà in giro solo per il mondo, poetando, e respingerà le altre donne.
La sua fine è orribile, ma in fondo inevitabile. Sarà squartato
proprio dalle donne e disperso. Di sole parole, infatti, non si vive. Ci
vuole anche il resto. Ci vuole l’amore. I poeti antichi si
preoccuparono, come nessun poeta moderno si è mai preoccupato, di
durare. Noi moderni tendiamo a concentrare la nostra mente su chi siamo
stati, pensiamo all’infanzia, a quel che non c’è più. Gli antichi
pensano ai posteri, a quel che non c’è ancora. Per questo la poesia
antica è così essenzialmente diversa dalla nostra: perché non si
abbandona ai ricordi personali, nemmeno quando esprime il massimo della
soggettività, come vediamo in Catullo. Il pensiero dei posteri non
nasce solo da sete di gloria. O meglio: la sete di gloria, che c’è ed è
innegabile, esprime un bisogno profondo di autoconservazione e
attraverso questo un rispetto della vita che a noi moderni manca. La
scarsità di ricordi, se da una parte può essere all’origine di molta
della nostra indifferenza alla poesia antica, dall’altra dovrebbe
insegnarci a sviluppare qualcosa di cui noi moderni siamo anche troppo
carenti: il pensiero di chi verrà dopo di noi. Il poeta antico si sforza
di trovare i modi per diventare contemporaneo dei suoi discendenti. Il
suo lavoro letterario è tutto un modo di meritarsi l’ascolto di chi
verrà, di diventare degno, di essere un modello. Questo apparente
narcisismo, in verità, è rispetto di chi ancora non c’è. Il poeta antico
non rifugge dalla responsabilità di farsi padre. Solo così ritiene di
potersi perpetuare. Ogni poeta antico si rivolge idealmente a un
figlio.
Nicola Gardini: il cuore delle parole
6 commenti:
Ciao Zefirina, grazie della visita e del commento!
La lista dei "100 libri" non è mia, l'ho presa da un altro blog ed è un po' che gira…è una specie di gioco insomma, ma anche un invito alla lettura..buona giornata!!
Carmen
Zefiri', grazie, grazie, grazie per questo post, ne ho ricavato una bella lezione.
Un caro saluto,
aldo.
Grazie per aver pubblicato questo brano è bellissimo. Mi chiedo che mondo sarebbe oggi se fosse arrivata a noi anche gli altri 4/5della letteratura antica andata dispersa..
me lo chiedo spesso anche io, non ho la puzza sotto al naso per detestare così tanto la letteratura moderna ci sono ottimi libri e ottimi scrittori, ma ogni tanto mi imbatto in certe "sole" che mi spingono a rileggermi i classici intramontabili
Come non essere d'accordo col tuo commento, zefirina?
Ma a parte questo ho gradito moltissimo il testo di Gardini che non conoscevo. E davvero un libro che viene dal passato ti apre un mondo precedente che si affianca al tuo arricchendolo di emozioni antiche.
Abbiamo perso l'innocenza, e con essa anche la capacità dello stupirsi. E poi la poesia è stata buttata ai margini di questa società.
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