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«La nostra personale felicità o infelicità, la nostra condizione terrena, ha una grande importanza nei confronti di quello che scriviamo». Così dice Natalia Ginzburg nel suo libro È difficile parlare di sé, nel capitolo in cui parla della sua vita e del suo rapporto con la scrittura dopo una tragedia personale. Non è facile parlare di sé. Perciò, prima che io dica cosa significhi per me scrivere ora, in questo momento della mia vita, vorrei parlare di come una situazione traumatica, una sventura, possa influire su una società o un popolo.E subito mi vengono in mente le parole del topo nella Piccola favola di Kafka. Prima di cadere nella trappola, mentre il gatto lo attende in agguato, il topo dice: «Ahimè, il mondo diventa ogni giorno più angusto». E in effetti, dopo tanti anni passati in una realtà estrema e violenta di conflitto politico, militare e religioso, posso affermare con rammarico che il topo di Kafka ha ragione: il mondo diventa davvero più angusto, si fa più piccolo di giorno in giorno. E posso anche raccontare del vuoto che si crea lentamente tra l´uomo, l´individuo, e la condizione violenta e caotica entro la quale egli vive. Una condizione che detta quasi ogni aspetto della sua vita. (...) Il topo di Kafka aveva ragione, quando il predatore è in agguato il mondo, in effetti, diventa più angusto. E lo diventa anche il linguaggio con cui lo si descrive. Per esperienza posso dire che il lessico con cui i cittadini del conflitto descrivono la loro condizione si impoverisce quanto più il conflitto si prolunga, trasformandosi gradatamente in un´accozzaglia di slogan e di luoghi comuni, a cominciare dal linguaggio usato dalle varie istituzioni che si occupano direttamente del conflitto - l´esercito, la polizia, i vari dicasteri governativi - per passare rapidamente ai mezzi di comunicazione di massa che ne fanno la cronaca, e inventano un linguaggio sofisticato e ingegnoso il cui fine è raccontare ciò che è più-facile-da-digerire per il loro pubblico (creando così una separazione tra tutto ciò che lo Stato compie nelle zone d´ombra del conflitto e il modo in cui i suoi cittadini scelgono di vedere se stessi). Alla fine tale processo filtra anche nel linguaggio privato, intimo, dei cittadini (nonostante loro lo neghino fermamente).Una conferenza dello scrittore israeliano "La sciagura che mi è capitata, la morte di mio figlio Uri, permea ogni momento della mia vita. La memoria aiuta" "La nostra personale felicità o infelicità ha una grande importanza per ciò che facciamo" ha scritto la Ginzburg La nostra arte, fondamentalmente, è un´attività di scomposizione della personalità che induce allo sconforto Talvolta mentre lavoro penso: ecco proprio ora un altro come me a Damasco o a Teheran in Ruanda o a Dublino fa la stessa mia cosa Mi vengono in mente le parole del topo nella favola di Kafka prima di cadere in trappola: "Il mondo diventa sempre più angusto" Pubblichiamo parte di un discorso che David Grossman ha tenuto nei giorni scorsi al Pen Club di New York.Ma, dopo tutto, questo processo è ovvio. In fin dei conti la naturale copiosità del linguaggio umano, la sua capacità di toccare le corde più sottili e delicate del nostro essere, potrebbe decisamente far male in una situazione del genere, giacché ci ricorderebbe costantemente la ricchezza della realtà di cui siamo privati, la sua complessità, le sue sfumature.E più la situazione appare senza via di uscita, più il linguaggio che la descrive si impoverisce, più il dibattito pubblico che la riguarda si va smorzando. Ciò che rimane, alla fine, sono i soliti e ripetuti scambi di accuse fra nemici, o fra avversari politici all´interno del paese. Rimangono i cliché con cui descriviamo il nemico, e noi stessi. In altre parole abbozzi di pregiudizi, paure mitiche e generalizzazioni volgari in cui imprigioniamo noi stessi ed entro i quali intrappoliamo i nostri nemici. Il mondo, in effetti, diventa sempre più angusto.Tutto ciò è vero non solo in riferimento al conflitto mediorientale. In così tante parti del mondo milioni di esseri umani si trovano in questo momento a dover affrontare questa o quella "condizione" in cui la loro esistenza, i loro valori, la loro libertà e la loro identità sono minacciati in diversa misura. Quasi ciascuno di noi vive una "condizione" personale, una maledizione privata. Suppongo che ognuno di noi avverta che la propria particolare "condizione" potrebbe trasformarsi rapidamente in una trappola che gli negherebbe la libertà, la sensazione di sentirsi a casa propria nel proprio paese, l´uso di un linguaggio personale, la gestione della propria libertà decisionale.In una realtà simile noi scrittori e poeti scriviamo. In Israele come in Palestina, in Cecenia come in Sudan, a New York come nel Congo. Talvolta, mentre lavoro, dopo aver scritto per qualche ora, alzo la testa e penso - ecco, in questo preciso momento un altro scrittore, che io nemmeno conosco e che vive a Damasco o a Teheran, in Ruanda o a Dublino, compie, come me, questo strano, insensato, meraviglioso lavoro di creazione in una realtà in cui ci sono così tanta violenza, alienazione, indifferenza, egocentrismo. Ecco, ho un alleato lontano che nemmeno mi conosce, e insieme tessiamo questa astratta rete di fili che, malgrado tutto, possiede una forza immane. La forza di cambiare il mondo e di crearne un altro, di dare voce ai muti e di aggiustare le cose, nel senso profondo, cabalistico del termine.Per quanto mi riguarda, negli ultimi anni, nei libri di narrativa che ho scritto, ho quasi voltato volutamente le spalle alla realtà immediata, scottante, del mio paese, quella delle ultime news. Su questa realtà ho scritto libri in passato, e anche negli ultimi anni non ho mai smesso di scrivere per cercare di capirla mediante articoli e saggi e interviste. Ho partecipato a decine di manifestazioni, di iniziative internazionali per la pace, ho incontrato i miei vicini - alcuni dei quali sono miei nemici - in qualunque occasione ritenessi che ci fosse qualche opportunità di dialogo. Eppure, negli ultimi anni, per una decisione mia, quasi di protesta, non ho mai incluso questo teatro di tragedia nella mia letteratura. Perché? Perché volevo scrivere di altre cose, non meno importanti e per le quali è difficile trovare tempo: di sentimenti e della capacità di prestare veramente ascolto quando tutt´intorno romba una guerra quasi perpetua.Ho scritto dell´ossessiva gelosia di un marito nei confronti della moglie. Di ragazzi senza tetto nelle strade di Gerusalemme, di un uomo e di una donna che creano un loro linguaggio personale, quasi ermetico, chiusi in una surreale bolla di amore. Ho scritto della solitudine di Sansone, l´eroe biblico, di rapporti sottili e complessi tra donne e le loro madri e, in generale, tra genitori e figli. Ma circa quattro anni fa, quando il mio secondo figlio era in procinto di arruolarsi nell´esercito, non ce l´ho più fatta a rimanere dov´ero. Provavo una sensazione quasi fisica di urgenza, di bisogno impellente, che non mi dava pace. Ho cominciato allora a scrivere un romanzo incentrato sulla cruenta realtà in cui viviamo. Che descrive come la violenza esterna, la brutalità della situazione che ci circonda, si insinui nel tessuto delicato, intimo, di una famiglia e, alla fine, lo laceri.«Nel momento in cui uno scrive», dice Natalia Ginzburg, «è miracolosamente spinto ad ignorare le circostanze presenti della sua propria vita. Certo è così. Ma l´essere felici o infelici ci porta a scrivere in un modo o in un altro. Quando siamo felici, la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria». Si fa fatica a parlare di se stessi. Dirò allora quello che posso in questo momento, nella condizione in cui mi trovo.Io scrivo. La sciagura che mi è capitata, la morte di mio figlio Uri durante la seconda guerra del Libano, permea ogni momento della mia vita. La forza della memoria è in effetti smisurata, enorme. A tratti possiede qualità paralizzanti. Eppure l´atto stesso di scrivere crea per me, ora, una specie di "luogo". Uno spazio emotivo che non avevo mai conosciuto prima, in cui la morte non è solo la contrapposizione totale, categorica, della vita.Gli scrittori qui presenti lo sanno: quando scriviamo percepiamo il mondo in movimento, elastico, pieno di possibilità. Di certo non congelato. Ovunque vi sia qualcosa di umano, non c´è immobilità né paralisi. E, sostanzialmente, non esiste nemmeno uno status quo (anche se, a volte, pensiamo per sbaglio che esista; e c´è chi vorrebbe moltissimo che lo pensassimo).Io scrivo. Il mondo non mi si chiude addosso, non diventa più angusto. Mi si apre davanti, verso un futuro, verso altre possibilità. Io immagino. L´atto stesso di immaginare mi ridà vita. Non sono pietrificato, paralizzato dinanzi alla follia. Creo personaggi. Talvolta ho l´impressione di estrarli dal ghiaccio in cui li ha imprigionati la realtà. Ma forse, più di tutto, sto estraendo me stesso da quel ghiaccio.Io scrivo. Percepisco le innumerevoli opportunità presenti in ogni situazione umana e la possibilità che ho di scegliere fra di esse, la dolcezza della libertà che pensavo di avere ormai perso. Mi compiaccio della ricchezza di un linguaggio vero, personale, intimo, al di fuori dei cliché. Riprovo il piacere di respirare nel modo giusto, totale, quando riesco a sfuggire alla claustrofobia degli slogan, dei luoghi comuni. Improvvisamente comincio a respirare a pieni polmoni.Io scrivo. E mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talvolta una sorta di medicina che cura una malattia. Uno strumento per purificare l´aria che respiro dalle prevaricazioni e dalle manipolazioni dei malfattori della lingua, dai suoi vari stupratori. Io scrivo. Sento che la sensibilità e l´intimità che ho con la lingua, con i suoi diversi substrati, con l´erotismo, con l´umorismo e con l´anima che essa possiede, mi riportano a quello che ero, a me stesso, prima che questo "io" fosse ridotto al silenzio dal conflitto, dal governo, dall´esercito, dalla disperazione e dalla tragedia.Io scrivo. Mi libero da una delle vocazioni ambigue e caratteristiche dello stato di guerra in cui vivo - quella di essere un nemico, solo ed esclusivamente un nemico. Io scrivo, e mi sforzo di non proteggere me stesso dalle sofferenze del nemico, dalle sue ragioni, dalla tragicità e dalla complessità della sua vita, dai suoi errori, dai suoi crimini. E nemmeno dalla consapevolezza di quello che io faccio a lui, né dai sorprendenti tratti di somiglianza che scopro tra lui e me.Io scrivo. A un tratto non sono più condannato a una dicotomia totale, fasulla e soffocante: la scelta brutale fra "essere vittima o aggressore" senza che mi sia concessa una terza possibilità, più umana. Quando scrivo riesco a essere un uomo nel senso pieno del termine, un uomo che si sposta con naturalezza tra le varie parti di cui è composto; che ha momenti in cui si sente vicino alla sofferenza e alle ragioni dei suoi nemici senza rinunciare minimamente alla propria identità. (...)Io scrivo. Do alle cose del mondo esterno, estraneo, nomi personali e intimi. In un certo senso, le faccio mie. E così facendo ritorno a un´atmosfera di casa da un luogo in cui mi sentivo esiliato, forestiero. Apporto un piccolo cambiamento a ciò che prima mi appariva immutabile. Anche quando descrivo il mio destino, stabilito dall´arbitrio ottuso degli uomini, o del fato, scopro improvvise minuzie e sfumature nuove. Scopro che il fatto stesso di scrivere di quell´arbitrio mi permette di affrontarlo con una sorprendente libertà di movimento. Che il semplice fatto di doverlo affrontare mi concede libertà - forse l´unica che l´uomo possiede dinanzi a qualunque arbitrio: quella di formulare la propria, tragica condizione con le sue parole. Di parlare di sé in maniera diversa, nuova, di fronte a tutto ciò che minaccia di incatenarlo, di imprigionarlo nelle definizioni ristrette e fossilizzate dell´arbitrio.E scrivo anche di ciò che non potrà mai più essere, per cui non c´è consolazione. E anche allora, in un modo che ancora non so spiegare, le circostanze della mia vita non mi si chiudono addosso, non mi paralizzano. Più volte al giorno, seduto alla mia scrivania, tocco con mano il dolore, la perdita, come chi tocca un filo della corrente a mani nude. E non muoio. Non capisco come questo accada. Forse, dopo che avrò finito il romanzo che sto scrivendo, tenterò di capirlo. Non ora, è troppo presto.E scrivo della vita del mio paese, Israele. Un paese tormentato, intossicato da troppa storia, da sentimenti esasperati che non possono essere umanamente contenuti, da troppi eventi e tragedie, da ansie parossistiche, da una lucidità paralizzante, da un eccesso di memorie, da speranze deluse, dalle circostanze di un destino unico nel suo genere tra tutti i popoli del mondo, da un´esistenza che talvolta appare mitica, da una storia "più grande della vita stessa" al punto che pare che qualcosa sia andato storto nei suoi rapporti con la vita e con la possibilità che noi, israeliani, potremo un giorno condurre un´esistenza regolare, normale, come un popolo tra gli altri popoli, uno stato tra gli altri stati.Noi scrittori conosciamo momenti di sconforto e di scarsa autostima. La nostra arte, fondamentalmente, è un´attività di scomposizione della personalità e di rinuncia ad alcuni dei meccanismi di difesa umana più efficaci. Noi trattiamo, di nostra volontà, alcuni dei materiali dell´anima più coriacei, più brutti e più difficili da maneggiare. Il nostro lavoro ci porta ripetutamente ad essere consapevoli dei nostri limiti, sia come uomini che come artisti.Eppure è questa la cosa meravigliosa, l´alchimia che si crea in ciò che facciamo: in un certo senso, nel momento in cui prendiamo in mano la penna, o la tastiera del computer, non siamo più vittime impotenti di tutto ciò che ci asserviva, o ci sminuiva, prima che cominciassimo a scrivere. Noi scriviamo, siamo molto fortunati. Il mondo non ci si chiude intorno, non diventa più angusto. (Traduzione di Alessandra Shomroni)
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